REGOLE DI COMPORTAMENTO, ADDESTRAMENTO E PROBLEMI COMPORTAMENTALI. FISIOLOGIA E PATOLOGIE DEI NOSTRI POVERI CANI.
di Maurizio Romanoni
Tempo addietro un’amica aveva pubblicato la foto di un cane dall’espressione arcigna, associata a locandine che pubblicizzavano stage improntati sulla risoluzione di problemi comportamentali del cane. L’amica ironizzava, a mio avviso a ragione, sul meccanismo subdolo e talvolta fuorviante del messaggio subliminale. Non è questa la sede e dunque non voglio entrare nel merito del problema, ma solo utilizzarlo come spunto per dire altro. Delle due locandine, solo una ho trovato stridente con quello che secondo me é il senso dello stare con un cane, del godere della sua compagnia. Era quella relativa ad uno stage tenuto da un notissimo “cognitivista” italiano – mi pare che così amino auto definirsi – la cui fama va ben oltre l’arco alpino. L’argomento pareva dotto, molto dotto, anzi, dottissimo! Sono stato allora colto da un irrefrenabile prurito, quasi fossi stato attaccato da orticaria o psoriasi estesa e, quando il fumo ha iniziato ad uscirmi dalle orecchie e a consentire, dunque, che la mia pressione arteriosa si normalizzasse, ho cominciato a riflettere. E riflettendo mi sono tornati in mente gli insegnamenti scolastici ed i classici della letteratura italiana. In particolare il Manzoni dei Promessi Sposi. Ricordate il dottor Azzeccagarbugli? Il vecchio e stolido trombone a cui il povero Renzo aveva confidato le proprie pene, sperando in un aiuto in cambio di quattro capponi? Eccolo, proprio lui. Ma che c’entra col cognitivismo, direte voi? Solo un attimo di pazienza, ci arrivo pian piano. Al capitolo V – sono andato a rivedermelo, sennò mica l’avrei saputo collocare esattamente – il Dottore é commensale al tavolo di Don Rodrigo, chiacchiera senza prendere posizioni, “galleggia” senza esporsi nella conversazione, presenzia al solo scopo di godere dell’ospitalità, di sedere al tavolo dei potenti. Ad un certo punto, magnificando il vino dell’ospite, così recita…”dico, proferisco e sentenzio che questo é l’Olivares dei vini: censui, et in eam ivi sententiam…” Usa terminologie raffinate e abusa del latino al solo scopo di non essere compreso e, dunque, di apparire ancor più dotto. Già, di non essere compreso. Se avesse usato un linguaggio semplice e intellegibile sarebbe stato giudicato dai suoi ospiti e soprattutto da sé stesso, poco autorevole e, dunque, degno di scarso prestigio. Quanti azzeccagarbugli ho incontrato in questi anni nei tribunali, quanti loro poveri clienti ho visto pendere da quelle labbra che declamavano pompose e vuote arringhe, dense di inutili citazioni latine, tese all’unico scopo di giustificare un’esosa parcella, non certo di convincere i giudici, ormai sordi a quelle vuote parole. E ancora, quanti politici abbiamo udito esprimersi in un incomprensibile “politichese”, ben prima dei rantoli e dei rutti di Bossi e delle sue camice verdi! Due abomini collocati agli antipodi del buon senso.
Che significava il termine “convergenze parallele”, pronunciate da Aldo Moro, prima che il martirio lo elevasse a Grande Statista? Francamente non l’ho mai capito. Già, perché a scuola mi avevano insegnato che due rette erano convergenti oppure parallele. Tertium non datur… Altra via non esiste. Vedete? Anch’io ci casco ogni tanto con il latino. Ma perché mi piace – anche se a scuola lo detestavo – non certo con lo scopo di non essere capito, credetemi. E comunque di solito lo tengo per me. Trovo, in sostanza, che, fin dalla notte dei tempi, l’uomo vuoto, vanitoso e protervo abbia fatto uso e abuso della propria cultura, poca o tanta che fosse, per turlupinare il semplice che, in quelle parole vuote e pompose vede la meraviglia a cui lui non ha accesso, e se ne innamora senza comprenderla. Credo che ora abbiate cominciato ad intuire dove sto andando a parare. In verità, non avrei alcun problema a tollerare che schiere di persone partecipino a stage cinofili, muniti di dizionario della lingua italiana e manuali di filosofia, al fine di tradurre, per avere accesso alla scienza oscura del docente. Affari loro, mi verrebbe da dire, l’ “investire” danaro per conseguire diplomini, sulla cui pratica utilizzabilità nutro seri dubbi. Ciò che invece mi infastidisce, provocandomi orticaria e pruriti vari, è il constatare che queste persone, che divengono poi educatori e istruttori, non sanno, non sono in grado di intrattenere il benché minimo rapporto con il proprio cane, figurarsi con quello degli altri. Sono invece bravissimi a far indossare al cane la solita pettorina – perché un normale collare strangola, guaiaddio! – corredata da un guinzaglio lungo non meno di tre metri. Il problema è che la loro maestria pratica lì finisce, non va oltre.
E chi ne fa le spese, tanto per cambiare, è il povero cane che non capisce e non riesce a farsi capire. Esempi? Ricordo, ad un mio stage, una signora che aveva fatto più corsi di questo tipo e dunque possedeva una fantastica capacità di dire cose banali, utilizzando parole da Accademia della Crusca. Entra in campo con il suo cane, “vestito” di pettorina e lungo guinzaglio e, dietro mia esortazione, lo libera. Lo scopo era di vedere le basi della relazione: quanto il cane desiderasse starle accanto e collaborare semplicemente, trotterellando con lei, almeno nelle vicinanze. Non appena libero, il cagnone comincia a correre all’impazzata per tutto il campo, lambendone il perimetro, le sta il più lontano possibile. Quando lei, sollecitata da me, abbozza un richiamo, lui comincia a fare pipì in ogni dove, mangiare ossessivamente erba e, infine…la cacca. Ad ogni richiamo il cane guarda altrove e mette in atto ogni sorta di comportamento sostitutivo pur di abbassare la soglia dello stress. La guardo attonito finché lei mi lancia un sorriso complice e mormora: “sai, il mio cane è munito di forte motivazione ricognitiva”. Capite? FORTE MOTIVAZIONE RICOGNITIVA!!! Mi spiace ma non sono d’accordo con te, mia cara, rispondo, sforzandomi di mantenere un tono pacato. Il tuo cane si sta facendo, soltanto e semplicemente, i cazzi suoi. E sai perché? Perché non riesce a starti accanto, a stabilire con te una relazione decente. Tu non stai capendo il tuo cane e lui non trova altro rimedio che starti lontana, perché certo non gli basta quella bella pettorina e quel lungo guinzaglio di tre metri. Non gli basterebbe neppure se fosse lungo trenta o trecento metri. Perché il problema non è mai, come ha recentemente sottolineato in una sua nota Mauro Cantarelli, nel dilemma tra collare o pettorina, tra guinzaglio corto oppure lungo, non è mai se sia opportuno o meno l’uso del “gentle leader”. Il problema è come instaurare una relazione armonica con il proprio cane. E quando questa è inesistente, appare davvero inutile oltre che idiota sfoderare astruse terminologie, degne di un simposio teoretico sull’immortalità dell’anima o sulla palingenesi.
Al cane non interessano per nulla le perifrastiche attive o passive, la consecutio temporum, le declinazioni latine o le arringhe di Cicerone. Lui non ci giudica se sbagliamo i congiuntivi o se non abbiamo l’eloquio fluente. Si accontenta, poveretto, che noi cerchiamo di comprenderlo, di correre con lui come fossimo suoi simili, che abbassiamo il tono della voce, che la smettiamo di ripetere ossessivamente il suo nome richiamandolo e di ripetere come un mantra, “no!”. No questo, no quello, no le zampe addosso, no la pipì, no la cacca, no gli altri cani, no abbaiare. Basta con questo mondo di divieti. Forse sarebbe opportuno imparare, finalmente, cosa significa rinforzare, RINFORZARE, vivaddio! Rinforzare con il gioco, con ogni tipo di gioco, rinforzare correndo, fuggendo, rinforzare toccando, carezzando, parlando a bassa voce e con toni caldi, autentici e non come stessimo recitando il rosario, una noiosa litania. Bravo, bravo, bravo, bravo in tono monocorde e snervante. Un “bravo” pronunciato dalle corde vocali, dalla sola bocca, senza che dall’anima sgorga alcunché. Eccomi dunque arrivato, ecco, dunque, spiegato il perché dei miei pruriti. Eccoci, finalmente, al titolo di questa nota post natalizia. Credo che, in generale, siamo noi uomini e soltanto noi i responsabili dell’insorgere di tanti problemi comportamentali nel cane. Noi con la nostra incapacità di “leggerlo”, di comprenderlo. Noi con le nostre richieste assurde ed esorbitanti, mai corredate da rinforzi adeguati. Noi, ciechi e sordi, mai, purtroppo, muti. Parole a vanvera, a sproposito, errate nei toni e nel volume e, soprattutto sganciate e non precedute dall’osservazione e dall’ascolto. Se questo è vero, forse sarebbe opportuno, invece di riempirci la bocca parlando di problemi comportamentali e di organizzare pomposi stage per la loro soluzione, che poi sono in qualche modo correlati con l’adozione di psicofarmaci, di cui mi risulta si faccia abuso, partire dalla base, dalla fisiologia del cane, non dalla sua patologia che, ripeto, penso sia ben poca cosa.
Credo, in sostanza, che dovremmo modificare il nostro modo di essere, dando, in primo luogo al cane delle regole, che per lui diverranno punti di riferimento, certezze attorno alle quali costruire la propria personalità, e insegnare ai proprietari a “leggerlo”, dunque, a capirlo e, di conseguenza, ad entrare in relazione con lui. Una relazione fatta prima di concetti essenziali e poi di sfumature, sempre più sottili e delicate. Infine, un buon addestramento, fatto di buone e semplici cose – l’insegnamento di uno sport sarà solo più articolato, ma la costruzione di base sarà identica – contribuirà a migliorare la gestione, solo quella. L’empatia sarà arrivata ben prima. Beninteso, non intendo dire che non esistano le patologie, le fobie, i problemi pressocché irrisolvibili senza l’ausilio di psicofarmaci e di buoni comportamentalisti. Vorrei soltanto non venissero enfatizzati per insipienza o, peggio, tornaconto. Vorrei non veder castrare un cane solo perché cerca di montare una proprietaria incapace di dirgli “ora basta!”, con la diagnosi di grave iper sessualità, o di veder somministrare psicofarmaci a cagnetti nevrili, che desideravano solo fare vita un poco più dinamica, con sane corse nei prati. Le patologie psichiche nel cane, come in tutti gli esseri viventi esistono eccome – nel cane esistono a maggior ragione, visto lo scempio che l’essere umano ha saputo fare tramite la talvolta dissennata selezione delle molteplici razze, dove il fattore moda ha concorso ben più di quello salute, fisica e psichica – ma è bene che siano affrontati da tecnici capaci e analizzati nella loro oggettività. Credo, insomma, che dovremmo smetterla di considerarci novelli stregoni, piuttosto che insigni professori, venuti sulla terra per dire al cane chi è e quel che deve fare. Lui già lo sa benissimo, noi serviamo solo a complicargli il suo saggio e naturale, già, naturale! modo di essere. Un poco di umiltà ci farebbe solo bene. Ci aiuterebbe a fare silenzio, a guardare, ad ascoltare a cercare di capire, di sentire quell’armonia semplice e, nel contempo, profonda che i nostri cani cercano di trasmetterci e che noi, sepolti sotto le nostre mille infrastrutture, non riusciamo più a cogliere.